La scuola in ospedale. Quel filo che regala normalità ai piccoli malati

Sio arena

Non c’è mai un giorno uguale. La bellezza, e la sfida di questa professione scelta dopo un lungo percorso di crescita personale, nasce proprio da qui. «Apro la porta e non so chi troverò dall’altra parte, quale segmento della sua vita incrocerò con la mia, che scambio ci sarà anche con la famiglia». Claudia Spelta, 46 anni, è insegnate di lettere alle medie e nove anni fa si è messa alla prova chiedendo il trasferimento alla scuola ospedaliera della città. Il suo mondo è il Polo Confortini: le stanze e le aule attrezzate con la miglior tecnologia e strumentazione didattica di oncoematologia pediatrica, pediatria, fibrosi cistica. Qualche puntata se necessario in psichiatria, o al centro ustioni, ovunque vi siano minori in età scolare ricoverati per più giorni.

«Per me essere qui ha un senso profondo», spiega, «mi consente di insegnare in un altro contesto. Usiamo la metodologia laboratoriale, con l’idea del modulo ikea: ogni giorno dobbiamo trasmettere il meglio degli strumenti in relazione al tempo a disposizione. Il giorno dopo si amplia, ma se non fosse possibile, anche quel singolo modulo avrà una sua funzione coerente». Perché la durata di un ricovero non è sempre calcolabile e in ospedale domina il ritmo dell’ospedale stesso, fatto di cure, indagini diagnostiche, acuirsi dei sintomi della malattia, momenti di quiete. La scuola ospedaliera si inserisce nel flusso con una sapienza consolidata da quasi trent’anni di presenza. «La scuola», riprende la professoressa Spelta, «è l’esperienza che unifica tutti, dai piccoli di tre anni ai ragazzi di 18. Consente di mantenere la normalità in una vita sconvolta dal punto di vista fisico, dei ritmi, dei luoghi. Offre il modo per rimanere attivi».

Aderirvi è facoltativo e gratuito. «I primi tempi mi domandavo: perché dovrebbero aver voglia di fare lezione anche qui? E invece accettano, quasi tutti, volentieri. I genitori stessi ci chiedono di prendere contatto con la scuola d’origine». Per capire: la scuola ospedaliera è un diritto, viene prevista nell’ospedale della provincia che ha il maggior numero di ricoveri di minori. A Verona è gestita per primaria e secondaria di primo grado dall’Ic 9 della Valdonega e per le superiori dal Copernico Pasoli. All’ultima giornata della didattica in Gran Guardia ha partecipato con un proprio stand. Vede al lavoro tre insegnanti per la primaria, sei per le medie e quattro per le superiori, coprendo le principali materie di studio dei vari cicli; due docenti coordinatori. E si spera a breve di poter aggiungere una maestra per la scuola dell’infanzia. La scuola, orario 8 - 16, rilascia un certificato di frequenza con le attività didattiche svolte e i voti; argomenti e verifiche vengono concordati con i colleghi della scuola frequentata, tutti gli anni qualcuno fa l’esame di terza media durante il ricovero.

Il volume è quello di oltre 600 studenti per anno, suddivisi in parti uguali per ciascun ordine di studi. Ma appunto, il contesto, non è quello della scuola tradizionale. «Facciamo lezioni individuali, perlopiù in stanza», riprende Claudia Spelta, «e si sviluppa una relazione forte anche con almeno uno dei genitori, sempre presenti in reparto». Servono empatia, e forza. Doti che Spelta ha affinato lavorando da educatrice al centro diurno di Villa Buri, e come clown in corsia volontaria durante l’università. «Una volta una nonna mi ha detto: questo reparto non dovrebbe esistere. Eravamo in oncoematologia. Ecco, a volte sento il peso dell’inadeguatezza di fronte a situazioni così grandi, vorrei essere di maggior sollievo, conscia che una lezione di italiano o di geografia certo è poco. E una cosa mi è chiara: è sempre molto più grande il regalo che ricevo, del regalino che porto io in queste vite». Poi la scuola ospedaliera riprende il suo ritmo. C’è da somministrare una verifica su Carlo Magno.

Pubblicato su L' Arena, giornalista Francesca Mazzola

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